Miami, Florida
Rimasto vedovo molti anni prima, per David Saulman recarsi al lavoro in orari disumani era diventata la regola. Si muoveva nel labirinto del suo studio come un lord, accendendo tutte le luci e raccattando le buste dei corrieri dalle scrivanie dei suoi associati per poi avviarsi nella sua suite personale. La caffettiera collegata all’interruttore della luce aveva cominciato a far scendere un caffè nero e forte appena lui aveva varcato la soglia di quegli uffici immensi che occupavano un intero piano dell’edificio di una banca di Miami.
Quando arrivò alla sua scrivania, il caffè era pronto. Se ne versò una tazza enorme, ignorando il primo bagliore di luce color salmone che tingeva l’orizzonte sbiadito. Ventisette piani più sotto la metropoli sonnecchiava, godendosi gli ultimi momenti di quiete prima che il giorno la scaraventasse in un’altra affannosa sessione di esistenza.
Quando gli associati entravano a far parte dello studio Berkowitz, Saulman & Little, la prima cosa che notavano era che non c’erano né Berkowitz né Little, e che non c’erano mai stati. Quei nomi erano invenzioni di Dave Saulman, nomi altisonanti che erano serviti a dare un certo tono allo studio appena aperto, trent’anni prima. La seconda cosa che imparavano era che per quanto arrivassero presto in ufficio, il loro capo era già lì che guardava la loro posta.
Dave Saulman era un dittatore benevolo e qualcuno una volta gli aveva sentito dire: “Se è stato consegnato al mio studio, è mio.” Negli anni ottanta, quando i corrieri in bicicletta facevano la spola per consegnare droga ai giovani avvocati rampanti, arrivò a possedere tanta cocaina quanta ne deteneva la polizia di Dade. Non aveva mai stigmatizzato quelli che ne facevano uso, perché sapeva che le persone normali non avrebbero retto le cento ore settimanali di lavoro che la professione richiedeva. Saulman sapeva che per merito suo nel porto di Biscayne c’era qualche pesce che se la spassava.
La sera prima erano arrivate solo una decina di buste rosse, bianche e blu, il formato della posta prioritaria, distribuite sulle varie scrivanie da un inserviente. In pochi minuti le aveva aperte e lette, classificandole quasi tutte come eccessi di ansia dei clienti. Era strabiliante come la gente cadesse in preda al panico quando c’era in ballo qualche milione di dollari.
Saulman indossava un abito scuro, con le sottili linee gessate che accentuavano la sua figura imponente. La cravatta di seta non era completamente annodata, con il nodo a un paio di centimetri sotto il colletto sbottonato di una camicia perfettamente inamidata. Siccome aveva una riunione alle otto e mezza, indossava la protesi che rimpiazzava il braccio mancante. Quando poteva preferiva lasciar penzolare la manica vuota, ma quella vista sembrava mettere a disagio parecchi dei suoi clienti. Le fasce che tenevano fermo l’arto di plastica cominciavano già a dargli fastidio.
Era alto poco meno di un metro e sessanta e stava mettendo su pancia, ma sembrava molto più alto a causa della smisurata energia nervosa che il suo corpo emanava. Non stava fermo un attimo. La gamba destra si muoveva in continuazione sia quando era seduto che quando stava in piedi, con il braccio buono e il moncherino in perenne movimento, e persino le sue sopracciglia folte e intimidatorie si sollevavano e si abbassavano senza sosta quando parlava. Non erano movimenti intenzionali, ma semplicemente il frutto del bisogno innato di muoversi. Riusciva a mettere in soggezione chiunque, nonostante la sua statura.
Seduto dietro l’ampio piano della sua scrivania di legno di frassino, con le gambe che sussultavano come quelle di un condannato a morte, finì di leggere la posta ricevuta dai suoi associati e si concentrò sull’ufficio di Londra che aveva aperto di recente. Là era già giorno fatto e sicuramente lo studio era in piena attività. Buona parte degli avvocati era impegnata con la vendita di tutte le azioni di una società olandese da parte di un gruppo di tedeschi, ma c’erano comunque molti altri avvocati che potevano dedicarsi a questioni più mondane e meno redditizie.
Era sul punto di afferrare il telefono per suscitare in loro il timor di Dio, quando un fantasma entrò barcollando nel suo ufficio. Saulman lo riconobbe immediatamente, ma l’aspetto stracciato dell’uomo lo colpì più di quanto avrebbe voluto ammettere. Finley sprofondò in una delle sedie rosso scuro dallo schienale alto che stavano davanti alla scrivania di Saulman. Era un investigatore privato.
Finley aveva l’aspetto di un uomo inutile che indossava abiti da quattro soldi abbinati senza alcun gusto, con un taglio di capelli orrendo fatto di quattro ciuffi unti e sparuti pettinati sullo sfondo del cuoio capelluto rossastro e lucido. Era di corporatura massiccia, aveva spalle larghe e rigide che ricordavano la struttura squadrata del patibolo e braccia minacciose come la corda per l’impiccagione. Il ventre era prominente e teso sotto la maglietta comprata in sconto, ma tonico. Aveva un viso grassoccio, segnato dall’età e dall’esperienza, ma il suo sguardo era vivace e acuto. Come quello di un topo di fogna, ma due volte più astuto.
Anche se lo stava aspettando, Saulman rimase sbalordito notando la mancanza di rispetto di sé che l’uomo dimostrava di avere. Finley non era mai in ordine e sembrava sempre appena scampato a una catastrofe industriale. “Sei in anticipo” gli disse Saulman dissimulando. Ricordava distintamente di aver chiuso a chiave la porta d’ingresso, ma la cosa sembrava non aver minimamente rallentato Finley.
Finley prese l’accendino e lo accese, lasciando che la fiammella gli bruciasse le dita mentre estraeva dalla tasca della giacca un pacchetto di sigarette di marca scadente e ne accendeva una prima di parlare. La sua voce veniva direttamente dal profondo Sud ed era abbarbicata su un albero genealogico con pochi rami. “Mi sa che non volevi aspettare per sentire cos’ho da dirti.”
Da quando Mercer lo aveva chiamato per chiedergli notizie sulle petroliere che facevano rotta nel Golfo dell’Alaska e in particolare su quelle della Petromax Oil, Dave Saulman si era incuriosito, perché sentiva puzza di uno di quei grovigli per cui Mercer ormai andava famoso.
A sue spese, Saulman aveva spedito il suo investigatore più abile, Bud Finley, a fare un giro negli uffici centrali della Petromax Oil nel Delaware e poi in Louisiana, dove aveva sede la Southern Coasting and Lightering.
Anche se ormai si conoscevano da tanti anni, Mercer non aveva mai smesso di affascinare Dave Saulman. Riusciva a trovare soluzioni semplici a problemi complessi, o a trovare il disegno oscuro che si celava dietro una questione banale. Mercer aveva un istinto inquietante. Saulman sapeva perfettamente che quando lo chiamava per chiedergli un favore, quello era l’inizio di una storia molto, molto più complicata.
Così, quando un paio di giorni prima Mercer gli aveva chiesto informazioni sulle navi in transito nel Golfo dell’Alaska, Saulman sapeva che sotto quella risposta abbastanza semplice si nascondeva dell’altro. Se l’arrivo ritardato della Petromax Arctica al porto di Valdez era dovuto a qualche cosa di sospetto, un investigatore del calibro di Finley lo avrebbe scoperto. Anche Saulman aveva fatto qualche domanda qua e là sulla strana cessione della flotta della Petromax Oil alla Southern Coasting and Lightering, ma con scarsi risultati, ed era fiducioso che Finley avrebbe svelato l’intrigo che si celava dietro l’operazione.
Saulman si aspettava che Finley si sarebbe presentato al più presto quella sera. Quell’uomo aveva avuto solo quarantotto ore per scoprire qualcosa. Non riusciva a immaginarsi come Finley avesse potuto raccogliere tanto rapidamente informazioni su una compagnia così subdola come la Petromax Oil, per non parlare della fumosa SC&L. Nessuno dei contatti di Saulman, neanche quando era stato messo sotto pressione, sulla SC&L era riuscito a dirgli niente di più della notizia che la compagnia era stata a sua volta appena acquistata da un compratore sconosciuto. Saulman era inorridito dal fatto che qualcuno riuscisse ad agire nel labirintico, ma tutto sommato circoscritto ambiente del commercio marittimo senza che lui ne venisse a conoscenza.
“Hai mai sentito nominare un arabo che si chiama Hasaan bin-Rufti?” gli chiese Finley.
Venti minuti più tardi, dopo che aveva ascoltato tutta la storia di Finley, Dave Saulman era al telefono con la segreteria telefonica di Mercer. “Sono io. Chiamami APPENA PUOI o anche prima. La scoperta del ritardo della Petromax Arctica è solo la punta dell’iceberg. Chiamami a casa. Dopo quello che ho ascoltato stamattina, mi prendo una giornata di ferie.”